PERCHÉ IL DISASTRO È LETTERARIO O NON È DISASTRO (PRIMI APPUNTI)

 

OLTRE LA FINE: LA VIA ITALIANA ALLE NARRAZIONI DEL DISASTRO

 

 


 

Il rapido deterioramento della biosfera a causa dello sfruttamento delle risorse del pianeta, l’inquinamento dell’aria, della terra e dell’acqua, l’erosione della fascia d’ozono, il surriscaldamento della temperatura e le sue nefaste conseguenze, unite all’insicurezza economica, politica e la consapevolezza di un rinnovato senso d’instabilità e precarietà esistenziale dovuto solo il parte agli sviluppi più o meno spettacolari dei terrorismi religiosi, statali e internazionali, hanno prodotto negli ultimi decenni un interesse senza precedenti nei confronti della fiction definita post-apocalittica o, forse più correttamente, del disastro, della catastrofe e del collasso. Letteratura, cinema, televisione unite alla sempre proliferante produzione telematica di contenuti narrativi della rete hanno visto un incremento della produzione di opere che hanno il disastro – economico, ambientale, terroristico, atomico, demografico, batteriologico – come punto di riferimento per narrazioni del dopo, o post: dopo-collasso, post-disastro, post-apocalisse. Quest’ultimo termine è universalmente riconosciuto come referente per l’intera categoria delle narrazioni letterarie e cinematografiche del ‘dopo’, intendendo però per ‘apocalisse’ il crollo, la distruzione plateale, l’esplosione, il disastro supremo, e inserendosi così, al di là e oltre il contenuto religioso e spirituale del testo giovanneo (e di tutti gli altri testi dell’apocalittica biblica) assumendone solo gli aspetti di distruzione, annientamento, scontro spettacolare ed epocale, forti di una tradizione prettamente laica e materiale del libro che conclude la Bibbia.

Prima di entrare nel merito dell’arbitraria appropriazione di un termine che ha nel nome stesso un fascino irresistibile e un alone (riflessioni non peregrine in proposito vengono svolte da Marco Amici) di misteriosa enormità, pare opportuno svolgere una breve riflessione sull’apocalittica propriamente detta, e nel farlo fare riferimento al più prestigioso teologo italiano vivente, Gianfranco Ravasi che, in un’opera recente sull’apocalittica ha definito ‘il pianeta apocalittica’ come «La celebrazione di una conflagrazione della nascita di un nuovo mondo dalle ceneri del passato e del presente […] l’attesa di una conflagrazione finale con un apparato simbolico fosforescente, pirotecnico, incandescente», elementi che potrebbero adattarsi perfettamente agli eventi narrati nei romanzi cosiddetti post-apocalittici, tuttavia la continuazione del discorso critico del celebre teologo circoscrive il campo e allontana l’apocalittica da quello che qui si vuole chiamare come letteratura del disastro o del diluvio: «L’apocalittica è la celebrazione soprattutto di un grande, lontano mirabile orizzonte. È una specie di età dell’oro idealmente posta all’inizio e alla fine della storia».[1] Altrove lo stesso Ravasi, dimostrando come «l’Apocalisse s’interroga sul fine del mondo e della storia», afferma come «l’Apocalisse non sia un libro sulla fine catastrofica del mondo, bensì la celebrazione di una meta, di un fine pieno e glorioso a noi destinato da Dio».[2] Umberto Eco ha riflettuto da par suo sul significato fondamentale dell’Apocalisse biblica, rilevandone la non assimilazione con i concetti terreni di disastro e collasso in quanto narrazione per simboli di una venuta divina alla fine dei tempi: “Lo scopo dell’Apocalisse non è parlare della fine del mondo. Non intende evocare la Gerusalemme terrena, ma la Gerusalemme celeste. Tutte le considerazioni sulla fine del mondo derivano da una lettura eretica dell’Apocalisse.” Punto fondamentale della riflessione di Eco è la distinzione fra i due livelli dell’interpretazione: quello materiale e quello spirituale, escatologico, religioso:

 

Certo, l’Apocalisse narra come avverrà la fine del mondo, ma non è questo il punto. Il testo s’interroga sull’avvenire della Gerusalemme terrena, ma il suo messaggio fondamentale è assicurarci che la Gerusalemme celeste esiste già, che è sempre esistita. L’apocalisse è un libro ambiguo che può suscitare nel contempo la disperazione e la speranza.[3]

 

Ora proprio l’ambiguità strutturale dell’Apocalisse ha dato luogo all’utilizzo del termine ‘apocalittico’ come sinonimo di devastazione, fine, disastro e collasso, ma nella letteratura del disastro è l’assenza di eschaton, ovvero di un discorso sulle cose ultime, la non presenza di una riflessione religiosa o ispirata a Dio e la non corrispondenza fra l’insieme dei significati profondi dell’Apocalisse di Giovanni e dell’apocalittica con le narrazioni del disastro, dalla nube tossica di Shiel alle epidemie di Boccaccio, Manzoni, Matheson fino ai disastri atomici e post nucleari di Cassola, Scerbanenco e d’infiniti autori angloamericani, che ci spinge a parlare di letteratura della fine come di letteratura ‘apocalittica’. È piuttosto un evento biblico narrato in Genesi, il primo immenso disastro della storia dell’umanità (dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre, naturalmente), il diluvio che, come le narrazioni prese in esame, costituisce l’antagonista per eccellenza, l’invincibile potenza distruttiva che spazza via ogni cosa e a cui, in modo avventuroso, si salvano in pochi, i quali poi con il proprio lavoro ricostruiscono e ripopolano il pianeta. Berger coglie la differenza fra narrazioni apocalittiche e narrazioni del disastro quando a proposito delle prime afferma: “The apocalyptic event, in order to be properly apocalyptic, must in its destructive moment clarify and illuminate the true nature of what has been brought to an end,”[4] rivelazione e riflessione che, tranne significative eccezioni, manca completamente nelle narrazioni della fine, essendo concentrate sulla spettacolarizzazione dell’evento distruttivo in funzione prettamente diegetica ed essendo soprattutto concentrate sulla sopravvivenza (o sulla testimonianza, il che è praticamente lo stesso) e sulla ricostruzione, sul ripopolamento, sulla sopravvivenza.

Una testimonianza di non peregrina importanza la fornisce uno dei massimi narratori del Novecento italiano, Alberto Moravia. L’autore romano ne L’inverno nucleare scrive: «Né bisogna confondere, come si fa di solito, la fine della specie per mezzo della bomba con la vecchia Apocalisse di San Giovanni. È un errore allorché si parla della catastrofe nucleare, tirare in ballo l’Apocalisse», ed elabora, con la chiarezza e la precisione che gli erano proprie: «Nell’Apocalisse, c’è pur sempre l’idea dell’immortalità condensata in quelle fatidiche parole: “Io sono il principio e la fine.” Già, perché per dire “fine” si suppone che chi lo dice si ponga fuori dell’Apocalisse, in un’eternità in qualche modo paragonabile all’immortalità della specie di Shopenhauer».[5] Un’apocalisse non solo senza eschaton e senza rigenerazione, ma soprattutto senza rivelazione divina, non è che una catastrofe spettacolare e dalle dimensioni immani anche se le ere geologiche terrestri hanno visto migliaia di tali fenomeni, mentre l’uomo, in competizione con la natura e con se stesso, è stato in grado di creare strumenti di distruzione tali da annichilire la vita sulla Terra. Un uomo, quello contemporaneo, sclerotizzato, svuotato di principi, profondamente annoiato e allo stesso tempo spaventato che scopre il desiderio di morte e distruzione e lo proietta nel cinema e nella letteratura, e assieme al desiderio di morte sogna la cancellazione del tempo lineare introdotto dalla cultura giudaico cristiana e l’introduzione di una storia acronica futura, forse ciclica, primitiva, medievale, del dopo-distruzione di massa, la lenta e difficile ricostruzione del dopo diluvio, quando le acque, o gli isotopi, si sono ritirati e la vita ridiventa possibile. Nel suo saggio seminale sulla distruttività umana Fromm fornisce una descrizione ineccepibile della condizione dell’uomo moderno alla luce della quale diviene agevole interpretare la fascinazione piena di desiderio per la distruzione del genere umano: «Nella moderna società industriale sono proprio scomparse le tradizioni, i valori comuni e i legami sociali personali genuini con gli altri. L’uomo-massa moderno è solo e isolato, anche se fa parte di una folla: non ha convinzioni da dividere con gli altri, solo slogan e ideologie che ricava dai mezzi di comunicazione. È diventato un a-tomo […] che con gli altri ha in comune soltanto interessi, spesso antagonistici, e la preoccupazione dei quattrini».[6]

Per queste ragioni riferendoci a romanzi e racconti che narrano di invasioni aliene, impatti con comete e asteroidi, malattie e pandemie, terremoti e maremoti, esplosioni di super vulcani o di armi dal potere distruttivo immane pare più appropriato parlare di narrazioni del diluvio, della catastrofe, del disastro, del collasso, o, se il termine ‘apocalisse’ ricorre – come ricorre nei saggi che compongono questo volume - va naturalmente inteso come apocalisse terrena, parziale, secolare e materiale. Coglie quindi perfettamente nel segno Mirko Lino quando, a proposito dell’apocalisse postmoderna nel cinema e nella letteratura postmoderna, sostiene: «Quello che avviene con l’apocalittica postmoderna è inquadrabile nella traiettoria finale di un lungo viaggio metaforologico dell’Apocalisse biblica: la catastrofe abbandona la sua originaria appartenenza divina e diviene conseguenza dello scollamento tra evoluzione biologica e cultura. I simboli del testo di Giovanni vengono sostituiti da pratiche culturali, come il consumo, e da oggetti simbolici, come quelli tecnologici, la nuova Gerusalemme si confonde con la vita nelle metropoli e le sue promesse di salvezza non appaiono dissimili dalle stesse offerte da un qualsiasi shopping mall. Apocalisse e Postmoderno sembrano condividere la medesima attenzione nei confronti della manipolazione di simboli già preesistenti».[7] Il rapporto stretto fra passato e presenta da un lato e futuro dall’altro è analizzato in modo assai convincente da Michel Maffesoli, che, a conferma della tendenza finora delineata verso l’immaginazione di disastri immensi come speranza di ricostruzione, esperienza e senso della vita, in un passaggio di uno studio dell’apocalisse postmoderna, scrive: «L’agilità dell’esistenza si sclerotizza e la vitalità si rovescia in desiderio di morte […] appare allora, nel migliore dei casi, qualcosa che invoca il risveglio. Per dirla in altri termini: l’epoca attende la sua apocalisse».[8] Pare davvero difficile immaginare un’apocalisse più laica di questa e più lontana, in senso spirituale ed escatologico, da quella biblica. Il senso della fine, individuato da Kermode nel saggio seminale degli anni Sessanta del Novecento, inteso come percezione della possibilità della fine del mondo così come lo conosciamo, sentimento intrinsecamente e inestricabilmente legato alla contemporaneità e dovuto in parte alla consapevolezza del senso tutto umano della propria fine, sublimato e trasfigurato nella possibilità di una fine collettiva e globale, diventa possibilità diegetica illimitata, punto di partenza per migliaia di narrazioni che trovano nella dicotomia fondamentale distruzione-sopravvivenza il motore narrativo. Lo snodo del pensiero di Kermode, il suo contributo imprescindibile allo studio sul senso della fine consiste nell’individuazione del pensiero cristiano come primo momento, nella cultura occidentale, della comparsa di un senso della fine già presente nella dimensione umana: “Already in St. Paul and St. John there is a tendency to conceive of the End as happening at every moment; this is the moment when the concept of crisis was born,” pensiero che viene rielaborato a distanza di poche righe “Increasingly the present is ‘time-between’ came to mean not the time between one’s moment and the parousia, but between one’s moment and one’s death” riflessione che conduce inesorabilmente al passaggio più celebre del libro, autentica formula forse più spesso citata che compresa: “No longer imminent, the End is immanent.”[9] Chiarificatrici della dimensione umana culturale della fine ormai immanente poiché la sua presenza è riconosciuta come perennemente imminente, sono le poche righe che seguono la citazione precedente, e che conviene riportare per intero: “So that it is not merely the remnant of time that has eschatological import; the whole of history, and the progress of the individual life, have it also, as a benefaction of the End, now immanent. History and eschatology [...] are then the same thing.”[10] L’inesauribilità del tema della fine – ormai componente essenziale della vita di ognuno - e il suo fascino imperituro sono garanzia del suo stesso successo e della persistenza del tema della fine del mondo, o meglio della fine del mondo così come lo conosciamo qui e ora, in campo artistico e letterario. L’apocalisse, o meglio i suoi simboli e il senso d’ineluttabilità e globalità della distruzione che questa parola evoca, diviene un processo semantico, e sono parole dello studioso James Berger, “Apocalypse is a semantic alchemical process; it burn and distills signs and references into new precipitates.”[11]

La storia dell’umanità, e quindi la letteratura che essa ha prodotto ed è stata in grado di conservare e tramandare, non è che un susseguirsi di catastrofi grandi e piccole, personali e collettive. Per citare nuovamente Umberto Eco: “La storia della civiltà [e prima di essa, ci permettiamo di aggiungere, la storia della vita, umana e non, sul pianeta] è una successione di abissi in cui tonnellate di conoscenze scompaiono!”[12] Nulla di più apocalittico delle cinque estinzioni, e della sesta che incombe, come messo in luce dal saggio di Amici nella sezione dedicata al libro di Arpaia Qualcosa, là fuori, di tutte le guerre, locali e globali, delle pestilenze, dalla peste di Tucidide a quelle di Boccaccio, Manzoni e l’influenza d’inizio Novecento, fino alle epidemie create dall’uomo, dall’AIDS ai misteriosi morbi che fanno risorgere i morti, assai di moda negli ultimi decenni sul grande e sul piccolo schermo; nulla di più apocalittico delle guerre che piagano tante e tante parti del modo oggi, nel 2019, come ieri e l’altro ieri, poiché ogni evento traumatico cui si sopravvive a differenza di molti altri che soccombono può essere definito come un’apocalisse, laica, personale, locale, terrena, secolare, etc. ovvero una fine dei tempi senza Perusìa, ovvero senza il ritorno (o, se si accetta l’interpretazione dell’apocalisse che offre Eugenio Corsini, la venuta) di Cristo-giudice. Come scrisse Stephen Jay Gould a proposito dei timori millenaristici attorno all’anno Duemila, “La storia del mondo vivente è punteggiata di numerose e brutali decimazioni di massa. L’evoluzione non è un lungo fiume tranquillo!”[13]

L’evento traumatico che ha contribuito come pochi altri ad avviare la modernità, la ‘scoperta dell’America’, non è altro che una storia decennale e secolare di massacri e distruzioni seguite da ripopolamenti e ricostruzioni: un’apocalisse laica – anche se chi conquistava e uccideva lo faceva pro forma, in nome di Dio e della religione – completa di tutti gli elementi ‘apocalittici’ e soprattutto ‘post- apocalittici’ che informano e contraddistinguono la letteratura che così viene denominata oggi. Apocalittici furono i due conflitti mondiali, così come le guerre che li precedettero e li seguirono, come la guerra del Viet-Nam che non ha caso ha offerto lo stimolo alla produzione di un film celeberrimo che include la parola ‘Apocalypse’ nel titolo stesso. Il romanzo post-apocalittico italiano per eccellenza, più dei romanzi, pur notevoli, di Scerbanenco, Vacca, Volponi, de’ Rossignoli, fino ai più recenti di Laura Pungo, Tullio Avoledo e Niccolò Ammaniti, è La tregua (1963) di Primo Levi, opera di cui ci si occuperà altrove ma che merita di essere riconosciuta come matrice di ogni narrazione post-apocalittica italiana: contiene tutti gli elementi fondamentali e strutturanti del genere: la distruzione, l’annientamento, lo straniamento, la sopravvivenza, il viaggio, la possibilità di continuare l’esistenza in un mondo che non è né può essere lo stesso. Un valido seppur rapido excursus sulla letteratura italiana post apocalittica la fornisce Alberto Iozzia nel saggio contenuto in questo volume dedicato a Bontempelli. Lo studioso ha il merito di porre in prospettiva il genere post-apocalittico italiano mettendo in evidenza l’esistenza di opere che seguono immediatamente l’Unità e che riflettono le tensioni e le inquietudini di un periodo storico tutt’altro che pacifico e privo di scompensi e pertanto di possibilità ‘apocalittiche’ e disastrose.

La crisi di cui parlava Kermode, intrinseca e ineludibile nella vita degli uomini è la stessa crisi che ha accompagnato l’umanità dai tempi del Nuovo Testamento, certo, ma, riflessa nelle opere prese in esame in questo volume, è soprattutto la crisi della modernità, quella crisi che ha al tempo stesso dato avvio alla modernità e le ha posto fine, proiettandola nella post-modernità e quindi al culmine di questa, nella realtà planetaria del dopo undici settembre. Carlo Bordoni, in un volume scritto a quattro mani con uno dei massimi studiosi della società odierna, Zygmunt Bauman, si è soffermato sulla permanenza della crisi come elemento costante e fondamentale della realtà contemporanea: “Così come si vive in una società, dove prevale l’incertezza, così si vive in una perenne crisi, dominata da ripetuti tentativi di aggiustamento e di adattamento, che sono continuamente rimessi in discussione. Dalla crisi non si uscirà mai.”[14] Una riflessione per molti aspetti assimilabile a quella di Bordoni e Bauman, legata alla produzione letteraria, è quella che Alberto Asor Rosa svolge nel saggio Scrittori e massa, del 2015. Riflettendo sulla fine del post-moderno e sulle cause di questa fine, nonché sulle prospettive culturali e sociali offerte da ciò che seguirà, l’illustre critico scrive: “Il tramonto del moderno rappresenta un fatto traumatico, di gigantesche dimensioni; non riguarda solo la letteratura e le arti; riguarda tutta la nostra vita”.[15] Ora è proprio la fine del moderno ad aver scatenato ansie e paure la cui rappresentazione artistica, e particolarmente quella cinematografica e letteraria, ha dato un impulso senza precedenti alla letteratura del disastro e delle ultime cose. Ed è proprio nella società di massa che queste narrazioni svolgono la funzione di feticcio e di spettacolarizzazione di paure e speranze difficili da confessare. L’uomo a-tomizzato e isolato di Erich Fromm è lo stesso individuo solo e impaurito che compone la massa di cui parla Asor Rosa, poiché la società di massa, che si crede e si teme prossima al collasso, è – sono parole del critico romano – “una società in cui l’apparente proliferazione delle scelte individuali [...] è governata da un rigido, anzi rigidissimo, sistema di poteri ‘altri’, che sfuggono, più di quanto non era mai accaduto nelle fasi storiche precedenti, alla conoscenza e al controllo di qualsiasi scelta individuale”.[16] La combinazione esplosiva e nefasta fra questa rigidità travestita da liquidità e l’ineludibile (e ineluttabile) conseguenza della vera catastrofe – demografica, ambientale, atomica – costituisce il motivo fondamentale del successo della narrativa del disastro negli ultimi due-tre decenni, tradizione artistica che si inserisce in una ben precisa tradizione culturale ‘apocalittica’ ma che mai come negli ultimi anni ha prodotto tali e tanti frutti, dalla cultura più elevata a quella popolare, da romanzi d’impianto tradizionale a opere che sono debitrici più alla rete e al piccolo schermo che ai classici.

Lo ‘stato di eccezione’, lo insegna Agamben, è divenuto permanete, poiché viviamo, e sappiamo di vivere, alla fine dei tempi, ovvero in un presente che sappiamo prossimo a sconvolgimenti tali da rendere l’esistenza dell’uomo sulla terra ardua se non impossibile. Per usare i termini ‘apocalittici’ di Slavoy Zizec: “Il sistema capitalistico globale si sta avvicinando a un apocalittico punto zero. I suoi “quattro cavalieri dell’apocalisse” comprendono la crisi ecologica, le conseguenze della rivoluzione biogenetica, gli squilibri interni al sistema stesso (problemi con la proprietà intellettuale; imminenti lotte per materie prime, cibo e acqua), e la crescita esplosiva delle divisioni ed esclusioni sociali”.[17] I saggi contenuti in questo volume offrono un valido e acuto ventaglio di esempi interpretativi del sistema in crisi e delle rappresentazioni artistiche che danno voce a questa crisi permanente, al senso della fine e alla via italiana alla letteratura del disastro e delle ultime cose.[18]



[1] Gianfranco Ravasi, Quanto manca ancora all’alba? La Bibbia e il pensiero apocalittico, Bologna, EDB, 2017, pp. 18 e 21.

[2] Id., Apocalisse, Casale Monferrato, Piemme, 1999, pp. 8 e 201.

[3] Umberto Eco, Per tutte le fini del mondo, in Jean-Claude Carrière, Jean Delumeau, Umberto Eco, Stephen Jay Gould, Pensieri sulla fine dei tempi, a cura di Catherine David, Frédéric Lenoir e Jean-Philippe de Tonnac, Milano, Bompiani, 1999, p. 208.

[4] James Berger, After the End. Representations of Post-Apocalypse, Minneapolis-London, University of Minnesota Press, 1999, p. 5.

[5] Alberto Moravia, Lettera da Hiroshima (pp. 3-14), in Id., L’inverno nucleare, a cura di Renzo Paris, Milano, Bompiani, 1986, p. 5.

[6] Eric Fromm, Anatomia della distruttività umana (1973), Milano, Mondadori, 2010, p. 146.

[7] Mirko Lino, L’apocalisse postmoderna tra letteratura e cinema. Catastrofi, oggetti, metropoli, corpi, Firenze, Le Lettere, 2014, p. 11.

[8] Michel Maffesoli, Apocalisse. Rivelazioni sulla socialità postmoderna, Santa Maria Capua Vetere, Ipermedium libri, 2009, p. 22.

[9] Frank Kermode, The Sense of an Ending. Studies in the Thoey of Fiction with a New Epilogue (1966), Oxford-New York, Oxford University Press, 2000, p. 25.

[10] Ibidem.

[11] James Berger, After the End. Representations of Post-Apocalypse, cit., p. 7.

[12] Umberto Eco, Per tutte le fini del mondo, cit., p. 217.

[13] Stephen Jay Gould, Il 2000 e le scale del tempo, in Jean-Claude Carrière, Jean Delumeau, Umberto Eco, Stephen Jay Gould, Pensieri sulla fine dei tempi, cit., p. 32.

[14] Zygmunt Bauman-Carlo Bordoni, Stato di crisi, Torino, Einaudi, 2015, p. 72.

[15] Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo (1965). Scrittori e massa (2015), Torino, Einaudi, 2016, pp. 372-373.

[16] Ivi, pp. 373-374.

[17] Slavoj Zizec, Vivere alla fine dei tempi, Milano, Ponte delle Grazie, 2011, pp. 10-11.

 

 

 

 

 

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