Le “Soft Rains” e la “Smart Home,” per una rilettura di un racconto di Ray Bradbury

Il penultimo racconto delle Martian Chronicles di Ray Bradbury (1950) s’intitola, per esteso: August 2026: There Will Come Soft Rains.
Si tratta di un racconto, breve, come tutti quelli che compongono le cronache marziane, e che ha avuto, come tanti altri racconti dello stesso autore, un’ampia (e meritatissima) fortuna a livello di antologia. Il bello di essere un liceale negli Stati Uniti è, a mio parere, avere la possibilità di seguire un corso di letteratura americana e di poter leggere Bradbury. La mia generazione, che alle superiori leggeva gli Inni sacri di Manzoni e qualche racconto di Dacia Maraini, può ben capire.
Fra quattro anni sarà il 2026 e l’elemento strutturante del racconto di Bradbury, la casa autonoma e computerizzata al punto da svolgere ogni mansione senza l’intervento umano, è già, più o meno, una realtà. La smart home, con impianti vocali e interattivi dagli ormai familiari nomi femminili, Alexa, Siri ecc. non solo non sono più fantascienza, ma costituiscono già parte del quotidiano di molti che vedono nell’automazione più che uno status symbol, una necessità di adeguamento ai tempi. La macchina che si guida senza bisogno di guardare la strada, il frigo con tablet incorporato (ne ho visto uno bellissimo l’altro giorno da Lowe’s), il microonde che si attiva a comando, così le luci che si accendono, spengono, attenuano e intensificano, la voce femminile suadente che dà risposte a tutte le domande. Realtà a portata di (quasi) ogni portafoglio, con l’onnipresente possibilità di ratealizzazione. E tutto questo, dettaglio più dettaglio meno, Bradbury l’aveva già immaginato alla fine degli anni Quaranta del Novecento quando in Italia erano ancora in pochi ad aver visto un televisore. È la voce di uno smart-watch ante litteram che apre il racconto, all’interno della casa: “In the living room the voice-clock sang, Tick-Tock, seven o’clock, time to get up, time to get up, seven o’clock! […] Seven-nine, breackfast time, seven nine!” E la colazione viene preparata, naturalmente quella americana, con toast, bacon, e caffè. Altre voci sintetizzate si accumulano secondo un orario preimpostato di mansioni da svolgere, servizi da garantire, amenità da ammannire. Anche i promemoria dei compleanni dei social media attuali e le agende interattive e vocali compaiono nella casa deserta e super funzionale. Ma la casa è e resta vuota, e fuori piove. “This was the one house left standing,” informa il narratore, e qui il senso del disastro si fa pesante. Ma quale disastro? Cos’è successo? Lo sguardo si sposta sull’esterno, altrettanto solitario e desolato. Bruciature e figure umane impresse sul muro, macabro ricordo di corpi che il calore atomico ha dissolto, lasciandone solo la sagoma. Hiroshima era recente, nel 1950, neanche cinque anni. Per noi italiani, che pure un grandissimo racconto post-atomico l’abbiamo avuto grazie a de’ Rossignoli, H come Milano, che consiglio a tutti, abbiamo proprio in quel romanzo, una simile e altrettanto straziante immagine. Una figura vivente nel racconto, un cane solitario, di cui la casa riconosce l’abbaiare e lo fa entrare, ma con tutta la sua tecnologia non è in grado di sfamarlo, triste, desolata ironia. Nel racconto ci sono topi meccanici che triturano i rifiuti e puliscono i pavimenti, invenzione zoomorfa che nella realtà di oggi trova i roomba e gli smart garbage disposals. Nihil sub sole novi, mai. La casa prosegue ora per ora nella sua successione di servizi, dal pranzo alla merenda, al bagno rilassante, meccanico, vuoto, inutile: “At ten o’clock the house began to die.” Si sviluppa un incendio, rapidissimo, implacabile. Tutto brucia e si distrugge nonostante un’inutile, disperata resistenza anti-incendio del computer di controllo. Inutile anche l’intervento di altri meccanismi zoomorfi creati per spegnere le fiamme. Le voci meccaniche ‘smart’ muoiono una dopo l’altra in una scena che è l’apoteosi dell’inutilità della tecnologia davanti al disastro: “a scene of maniac confusion, yet unity; singing, screaming…” L’apocalisse rende “dumb,” stupido, ciò che è “smart,” intelligente, sembra dire l’autore. Un attimo prima del crollo finale, la cucina, impazzita, prepara una colazione pantagruelica e assurda che nessuno consumerà. Il racconto si chiude su una voce, unica “sopravvissuta,” che annuncia un nuovo giorno: “Today is August 5th, 2026, today is August 5th, 2026, today is…” E il racconto finisce, con la voce meccanica ora sì completamente e definitivamente priva di senso, prima all’interno dell’unica casa superstite, ora al di là di essa, messaggio registrato da un mittente che non esiste più, destinata a riceventi che non esistono più, in un contesto che non c’è più.
Anche l’era delle smart homes può finire, basta davvero poco.

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