Moon-Watcher e il monolite: sulla prima parte del romanzo di Arthur C. Clarke 2001: A Space Odyssey

C’è un elemento che mi ha colpito quando ho cominciato a leggere il romanzo di Arthur C. Clarke 2001 A Space Odyssey: la prima parte dell’opera è interamente ambientata nella preistoria e ha un personaggio indimenticabile, Moon-Watcher, un primate sulla via evolutiva verso i Sapiens. La descrizione della sua esistenza di stenti e sofferenze è poetica, a tratti strazianti e, per quelli che come me hanno visto solo il film (che segue il romanzo, e che, ancora più precisamente, frutto della collaborazione strettissima fra l’autore e Kubrick), è una bellissima sorpresa. Moon-Watcher, così chiamato per il fascino atavico che nutre per il cielo, vive in una caverna con il suo clan, non conosce utensili né è in grado di consumare carne. Il suo gruppo vive in una costante condizione di debolezza, fame, sfinimento, ferite e terrore. Clark li chiama uomini-scimmia, “man-apes” e li mette in correlazione con gli Altri, nemici sospettosi e spesso ostili. Questi ‘altri’ saranno sconfitti dal gruppo di Moon Watcher perché, a differenza di questi ultimi, non sapranno usare le ossa delle prede come arma. La presa di posizione evoluzionistica, lo dico di sfuggita, negli Stati Uniti del 1968 (come anche oggi nel 2022) è tutt’altro che scontata, anche in ambienti scientifici. La prima parte del romanzo offre uno spaccato vivido e serrato degli stenti e delle lotte del gruppo di Moon-Watcher alla vigilia del punto di svolta: l’apparizione del monolite, che nel romanzo è descritto come trasparente, simile a ghiaccio e non brunito come nel film.
Altrettanto notevole e diverso dal film è il percorso che il monolite fa compiere agli antenati: non solo l’utilizzo di un oggetto come arma, che nel film darà luogo a una delle sequenze in assoluto più celebri e famose della cinematografia universale, ma il percorso verso pensieri più elaborati, interconnessi, quindi verso una gestualità coordinata, nonché la visualizzazione di possibilità fino ad allora impensabili per loro. La scena dell’uccisione dell’erbivoro e della scoperta della carne è a mio parere da antologia, degna, almeno per il lettore italiano, di figurare fra le Favole della Preistoria di Moravia e Il mare verticale di Saviane, solo per fare due notevoli esempi nostrani. Così come la scena dell’utilizzo totemico della testa del leopardo, assente nel film, è prototipica del percorso di evoluzione mentale dei primati: sconfitto il predatore per eccellenza con le clave e il lavoro di gruppo, ne usano l’immagine ‘addomesticata’ – la testa infissa sulla cima di un bastone – per terrorizzare i nemici. Si può argomentare che la profondità temporale che il titolo del romanzo offre, con il termine ‘Odissea’ che rinvia a epiche d’altri tempi, trovi la sua ragione prima che nel viaggio intergalattico e al termine della mente umana attraverso l’intelligenza artificiale, proprio nei millenni rappresentati attraverso l’incontro degli ominidi della prima parte con ciò che umano non è, il monolite, simbolo e rappresentazione di un arcano che tuttora non siamo in grado di avvicinare. Del romanzo di Clarke resta pertanto lo stupore di Moon-Watcher di fronte alla luna e alla speranza di poter trovare un albero sufficientemente alto da permettergli di toccarla, evento poetico che troverà realizzazione solo decine di secoli dopo, e proprio grazie a un’altra Odissea. Robrisso

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